Soltanto due su 10 riescono a trovare una occupazione. Una cifra ben lontana dalla media Ocse (40%). Dalle carenze legislative all’ostacolo culturale: radiografia del gap italiano.

ROMA. Il governo è tornato a promettere nuove misure per ridurre la disoccupazione giovanile, giunta ormai a toccare percentuali drammatiche. Parlando al meeting di Rimini, il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha annunciato lo stanziamento di 2 miliardi di euro e l’introduzione di nuove «norme anti licenziamento» con l’obiettivo di creare 300 mila posti. Ma sono i portatori di handicap, secondo una ricerca condotta dall’Ufficio Valutazione Impatto del Senato, a essere ancora una volta dimenticati e lasciati fuori dal mercato del lavoro.

1. I numeri: solo due disabili su 10 riescono a trovare una occupazione
In Italia, solo 2 disabili su 10 riescono a trovare una occupazione. Si tratta di una cifra assai bassa, specie se comparata con quella – tutt’altro che lusinghiera – della media Ocse, che si attesta attorno al doppio: il 40%. L’82% dei disabili è escluso dal mondo del lavoro e, dunque, dal nostro assetto sociale. Ma aiutarli a trovare una occupazione non deve essere considerato mero welfare o, peggio, atto caritatevole, perché anche l’assistenza sociale ha un costo considerevole e a fondo perduto. Si potrebbe invece avere un risparmio o addirittura dei rientri semplicemente trovando mansioni adatte ai diversamente abili, in modo da includere una intera categoria, continuamente discriminata, in grado però di contribuire.

2. Gli interventi legislativi: cambio di passo col governo Renzi
Dal dopoguerra a oggi sono state davvero poche le leggi mirate a un tema così delicato. Occorre però riconoscere che il legislatore è tornato a occuparsi della materia proprio sotto l’esecutivo Renzi: prima con il Jobs Act e poi con la norma “dopo di noi”. Ed è proprio quest’ultima ad aver segnato uno spartiacque con il passato. La legge 112/16, infatti, si occupa, tramite un fondo ad hoc e una serie di strumenti (dal trust a sgravi fiscali, fino ad arrivare a incentivi sulla stipula di polizze assicurative), di garantire dignità e indipendenza ai disabili dopo la morte delle persone che li accudiscono. Nonostante il disinteresse dei media, il provvedimento firmato della deputata del Pd Ileana Argentin è molto importante perché, mentre secondo il precedente regime alla morte dei tutori (di solito i genitori) lo Stato provvedeva a internare in apposite strutture le persone colpite da disabilità, oggi è possibile consentire loro di continuare a vivere nella casa famigliare in un quadro di relativo benessere, indipendenza economica e dignità.

3. L’ostacolo culturale: la legge da sola non basta
Le disposizioni introdotte dalla L. 112/16 (“Dopo di noi”) sono sì importanti, ma non risolutive. Il solo modo per aiutare una persona diversamente abile a vivere appieno la propria vita, integrandosi con profitto nel tessuto sociale, è quello di consentirle di trovare un lavoro. E qui occorre vincere la diffidenza delle aziende, l’indisponibilità dei datori di lavoro, lo scarso coinvolgimento dei colleghi, discriminazioni dirette e indirette, pregiudizi radicati e stigma sociale. Insomma, la legge da sola non basta: occorrerebbe prima rieducare coloro che si ritengono “normali”.

4. Le novità del Jobs Act: cambiano le regole su assunzioni e incentivi
Con le nuove norme in tema di lavoro, il legislatore ha modificato in parte anche la legge 68/99 (“Il diritto al lavoro dei disabili”) per ciò che riguarda il “collocamento mirato”. Tale istituto, introdotto 18 anni fa nel tentativo di dare una risposta al problema, almeno su carta, individua una serie di mezzi tecnici e di supporto che permettono di valutare adeguatamente le capacità lavorative delle categorie protette, al fine di creare un punto di incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro. Nei fatti si traduce nell’obbligo, per le aziende con più di 15 dipendenti, di assumere persone che abbiano un’invalidità lavorativa superiore al 45%. Una unità se occupano da 15 a 35 dipendenti, due dai 35 ai 50, il 7% dei dipendenti totali per quelle più grandi. Con il Jobs Act l’obbligo si è inasprito: scatta dal 15esimo dipendente e non più dal 16esimo e grava sull’imprenditore (ma anche sui partiti, sui sindacati e sulle associazioni senza scopo di lucro) a prescindere dalle nuove assunzioni. Riformati anche gli incentivi: dal 35% al 70% della retribuzione, tenendo in considerazione la durata dei contratti e tentando di favorire sopratutto i lavoratori con disabilità psichica, i “grandi esclusi” dal mondo del lavoro.

5. Il collocamento mirato: una disposizione rimasta inattuata
In realtà, le novità del Jobs Act si innestano su una disposizione che, denunciano i sindacati, non ha mai funzionato e il cui ambito di applicazione è stato negli anni svuotato da deroghe ed escamotage per permettere agli imprenditori di sottrarsi ai propri doveri. Alcuni mesi fa, le organizzazioni sindacali di base della Cub (Confederazione Unitaria di Base) di Roma e Firenze hanno scritto al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, chiedendogli di intervenire «al fine di favorire una reale applicazione della legge 68/99 nei luoghi di lavoro pubblici e privati». Le sigle sindacali hanno lamentato inoltre la mancata attuazione della “Banca dati del collocamento mirato”, istituita col Jobs Act ma mai avviata.

6. Le critiche dei sindacati: quelle circolari del ministero del Lavoro che violano la legge
Nel loro appello a Mattarella, le organizzazioni sindacali individuano in particolare due circolari che consentono diverse deroghe alle disposizioni in tema di collocamento mirato. La 77 del 2001 permette alle aziende di pulizia di escludere dal computo delle quote obbligatorie i lavoratori assorbiti da appalti conseguiti dopo la costituzione. Quindi, se inizialmente sono costituite da 15 dipendenti e, a seguito di appalti, arrivano a contare oltre 50 lavoratori, a loro – e solo a loro – si continua a richiedere la quota fissa di un lavoratore disabile, facendo fede il numero di partenza. La circolare 2 del 2010 permette invece alle aziende in crisi che assumono lavoratori dalla mobilità di essere escluse dall’applicazione della 68/99 per l’intero periodo di fruizione degli ammortizzatori sociali.

7. L’esempio statunitense: il Supported Employment
Quando si parla di welfare, gli Stati Uniti non sono certo un modello cui tendere. Eppure, in tema, hanno elaborato un istituto che pare garantire risultati. È il Supported Employment e prevede l’inserimento immediato del disabile nel mercato competitivo con un “job coach” che supporta sia il lavoratore sia il suo datore di lavoro. Secondo lo studio dell’Ufficio di Valutazione Impatto del Senato, si evitano così le trappole che si sono manifestate nella prassi italiana del lavoro protetto, che aumenta i rischi di esclusione dal lavoro ordinario, e le insidie dei tirocini, terminati i quali molti portatori di disabilità (sopratutto mentale) vengono lasciati a casa.

8. Il rischio esclusione: oltre 80 mila alunni con disabilità nella scuola primaria
Secondo le ultime rilevazioni Istat effettuate nel 2013, in Italia ci sono 3,2 milioni di persone di età superiore ai sei anni con almeno una limitazione funzionale, di cui 2 milioni e 500 mila anziani. Sempre secondo l’Istat, nell’anno scolastico 2015-2016, gli alunni con disabilità nella scuola primaria sono 88.281 (pari al 3% del totale degli studenti), nella scuola secondaria di I grado 67.690 (il 4% del totale). Il 5 aprile del 2016, in audizione della Commissione Lavoro del Senato, il presidente dell’Istat, Giorgio Alleva, ha dichiarato: «Circa 269 mila disabili vivono con uno o entrambi i genitori (49,9%). Loro vedranno aumentare in futuro il rischio di esclusione ed emarginazione, se la società non sarà in grado di fornire loro il supporto delle cure e l’autonomia economica assicurata attualmente dalla rete familiare». Numeri importanti, come è importante la cifra che lo Stato destina a titolo di indennità di accompagnamento, lasciando queste persone parcheggiate a casa o presso presidi socio-assistenziali e senza permettere loro di contribuire allo sviluppo della società, in base alle proprie attitudini e capacità.

di Carlo Terzano

 

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